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 RECENSIONE WOLFMAN (2009)

 

 

 

Regia di Joe Johnston con Benicio Del Toro (Lawrence Talbot), Anthony Hopkins (Sir John Talbot), Emily Blunt (Gwen), Hugo Weaving (Detective Aberline), Geraldine Chaplin (Maleva)

Inghilterra epoca vittoriana: L'infanzia di Lawrence Talbot (Benicio Del Toro) termina la notte in cui sua madre muore. Dopo aver lasciato il misterioso villaggio vittoriano di Blackmoor, passa decenni cercando di dimenticare e di riprendersi dalla tragedia. Ma quando la fidanzata di suo fratello (Emily Blunt), lo rintraccia per aiutarla a ritrovare il suo amore scomparso, decide di ritornare a casa e unirsi alle ricerche. Viene a conoscenza del fatto che un essere con una forza bruta ed un'insaziabile desiderio di sangue sta sterminando gli abitanti del villaggio, e che un sospettoso ispettore di Scotland Yard (Hugo Weaving) sta investigando sul caso. Mentre ricostruisce i pezzi del cruento puzzle, viene a sapere di un'antica maledizione che, nelle notti di luna piena, trasforma, chi ne è colpito in un lupo mannaro.
(ATTENZIONE SPOILER)
Durante la caccia però, Lawrence viene aggredito dalla misteriosa creatura e lasciato in fin di vita.
Ripresosi dalla ferita, miracolosamente rimarginata in brevissimo tempo, farà la terribile scoperta di essere stato infettato dalla creatura che lo aveva aggredito.
La prima notte di luna piena si trasformarà in un licantropo, uccidendo molti paesani usciti per dare la caccia al mostro. Accusato di essere un feroce assassino, la polizia lo arresta, internandolo in un manicomio criminale nonostante le sue proteste di essere pericoloso poichè affetto da licantropia.

Qui farà la sconvolgente scoperta di essere stato trasformato proprio dal suo stesso padre che, durante una visita in manicomio, gli rivelerà anche di essere il responsabile della morte della sua adorata madre e del fratello Ben.
Una notte di luna piena i medici convinti di averlo curato, per dimostrargli che non si sarebbe trasformato, lo legano ad una sedia e lo mettono al centro di una sala osservato da molti studiosi; ovviamente Lawrence, allo zenit della luna piena, si trasforma in lupo uccidendo medici e guardie prima di riuscire a scappare. Ripresa la sua forma umana, la mattina seguente, cerca di rifugiarsi da Gwen, ma viene scoperto e si reca nella residenza di famiglia per uccidere suo padre , il responsabile della sua condizione. Così i due, trasformati in lupi mannari, si ritrovano a combattere insieme in una lotta all'ultimo sangue. Nel frattempo Gwen è sulle tracce di Lawrence ed arriva al castello nel bel mezzo dello scontro...

Se esistesse un Sindacato dei Lupi Mannari (e magari esiste, chi lo sa), probabilmente indirebbe un sit-in di protesta contro Joe Johnston per la rappresentazione desolatamente priva di spessore che fa della loro categoria. 
Il film di Johnston non riesce a portare sullo schermo, l'anima dietro il lupo, limitandosi a una trasposizione molto elegante ma molto superficiale della celebre leggenda. Manca la profondità psicologica, manca un intreccio curato nelle sue svolte e nei suoi colpi di scena. Manca insomma ciò che trasforma un semplice film in un'esperienza che si vive in prima persona

La leggenda del lupo mannaro è stata portata molte volte sugli schermi, esistono infatti piu' di trenta film (il prmo risale agli anni '10), che raccontano le gesta di queste anime tormentate dalla maledizione che li condanna a perdere la cognizione del se per lasciar uscire la parte piu' nascosta di ogni essere umano: la bestia.
Se infatti Johnston riesce, dal punto di vista visivo, a generare un mood cupo e misterioso, tipico dei romanzi horror ottocenteschi, fallisce però in modo evidente sul piano della sostanza.
Quella che colpisce Larry Talbot è una metamorfosi folle, orribile, dolorosa, bestiale. Ma Johnston si limita a rappresentarla davanti alla cinepresa nella sua manifestazione esteriore, in modo perlopiù convincente ma non esaustivo.
Nessun riferimento viene fatto al risveglio da questa "follia", alle conseguenze che questa trasformazione porta.
La mancanza di spessore psicologico non riguarda solo il protagonista Larry Talbot, che comunque Benicio del Toro riesce a interpretare con perfetta eleganza e fascino tutti vittoriani.


E' un problema di cui soffrono anche i coprotaginisti; la bella Gwen per esempio, la donna destinata a salvarlo con la forza del suo amore, non ha un background, Non si capisce da dove proviene, da dove le venga quella profonda accettazione della condizione dell'uomo di cui si è innamorata, (per altro dopo solo un paio di incontri nel castello avito della famiglia Talbot)
A mio parere il film si riduce in un “action (nel vero senso della parola) movie” in cui l’uomo si trasforma, corre, sbrana que e là e si ritrasforma e via dicendo a ciclo quasi continuo (ma quanto corre questo lupo??? )
Il regista si sofferma ben poco sulla personalità dei personaggi, su quello che provano, su quello che sono, siamo noi a dover intuire ed immaginare, osservando sguardi e gesti, quel che vi si cela dietro.

Ed è davvero un'occasione sprecata vista la perfetta atmosfera gotica della pellicola:  bellissime ambientazioni ben ricostruite, belle atmosfere cupe e grigie tipiche dell’inghilterra di fine 800.
In conclusione un film da vedere se volete passare un'oretta e quaranta tra ululati e inseguimenti, qualche colpo di scena che vi farà sobbalzare sulla sedia e un Benicio Del Toro  che resta sempre un gran bel vedere, soprattutto in maniche di camicia (stracciata) e pantaloni da cavallerizzo aderenti (il giusto)
Non aspettatevi "LA" storia d'Amore che rappresenta la salvezza. Quella che induce la bestia a recuperare la sua dimensione di uomo, la redenzione da ogni crimine commesso.
Non c'è romanticismo in questo uomo-lupo, nessun bagaglio di millenni di storia, nessun fascino del mistero che si cela dietro la figura mitologica.
La morale del film è che al destino non si sfugge mai, nemmeno se non fai altro che correre in giro come il nostro lupo Benicio.
Ma questa è solo l'impressione che ne ho ricavato io: come se all'uscita del film restasse qualcosa di non raccontato che nulla a che vedere con l'aspettativa di un seguito ma piu' a che fare con la mancanza di un qualcosa da cui tutto è iniziato.

 


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