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Home | Slightly Dangerous - Capitolo 10

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Slightly Dangerous - Capitolo 10

SLIGHTLY DANGEROUS

by Maet


Tutti i soggetti descritti nelle storia sono maggiorenni e comunque fittizi. I personaggi e le situazioni presenti nella fanfiction si ispirano a quelli creati da Mary Balogh, che detiene tutti i diritti sull'opera;  questa storia è stata scritta senza alcun fine di lucro e nel rispetto dei rispettivi proprietari e copyright.  

Potete leggere il prologo qui:
PROLOGO

Qui il primo capitolo:
CAPITOLO 1

Qui il secondo:
CAPITOLO 2

Qui il terzo:
CAPITOLO
3

Qui il quarto:
CAPITOLO 4

Qui il quinto:
CAPITOLO 5

Qui il sesto:
CAPITOLO 6

Qui il settimo:
CAPITOLO 7

Qui l'ottavo:
CAPITOLO 8

Qui il nono:
CAPITOLO 9
                                                                            

                                                                      10


Elizabeth spostò lo sguardo dal soffitto alla porta. Per la millesima volta. Le mani incrociate sul petto erano immobili, eccetto per i pollici, impegnati a ruotare senza sosta l’uno intorno all’altro. Sdraiata sul letto ad imitazione di un’effige funebre nobiliare, vibrava di energia trattenuta.
Nonostante non ci fossero candele accese, la luna illuminava a sufficienza la stanza da svelare le sottili crepe sul soffitto. Dopo averle osservate per un tempo che poteva variare dai trenta minuti all’ora e mezzo, si era convinta che riproducessero il disegno del labirinto, per quanto razionalmente sapesse che era impossibile. Eppure, le pareva che quelle linee tracciassero un percorso intricato verso un proprio centro, o forse era il labirinto che era divenuta la sua vita che stava guardando.
Appena pochi mesi prima tutto era stato chiaro, scontato, lineare, nella sua esistenza, ora le pareva di procedere senza sapere dove dirigersi e di perdersi sempre più.
Qualche ora prima, per esempio, era stata più che convinta di desiderare la visita di Wulfric, per terminare ciò che avevano iniziato nei giardini; adesso dopo quella lunga attesa e raffreddati i bollenti spiriti, iniziava a dubitare della saggezza dell’invito sconsiderato che gli aveva rivolto. Erano ospiti in una dimora che brulicava di lingue biforcute e nonostante tutte le rassicurazioni, tuttora non poteva credere che sarebbe divenuta la duchessa di Bewcastle. Di certo sarebbe stato più conveniente perdere la propria virtù in una situazione di maggiore tranquillità e con maggiore discrezione, soprattutto se non ci sarebbe stato nessun matrimonio riparatore.

Che brutta espressione e che brutta idea quella di sposarsi per riparare a qualcosa! Impegnarsi con una persona fino alla morte era quanto di più serio e sacro ci fosse, se non si era in grado di contare su un minimo di entusiasmo, almeno come spinta iniziale, allora il cammino si presentava solo in salita e irto di ostacoli.
Certo, lei non era ricca, non era bella, non vantava nobili natali da poter esibire e non era nemmeno quel tipo di donna che conduceva gli uomini alla pazzia. Cosa poteva offrire a un uomo che aveva tutto e che meritava la migliore delle mogli e delle castellane?
Le immagini del suo rientro le si affacciarono veloci e pungenti alla mente: occhiate sprezzanti, sguardi di sufficienza, bisbigli fin troppo forti, risatine mal celate. Lady Darnely e la signorina King non avevano perso tempo e si erano fatte un dovere di informare tutta la compagnia del suo presunto fidanzamento. Mentre saliva le scale che conducevano alla sua camera si era sentita trapassare la schiena da miriadi di piccole lame acuminate, le gambe che scricchiolavano come il legno che calpestava. Per quanto si affrettasse, le folate intense come aria riscaldata di invidia e cattiveria, provenienti dal piano inferiore, l’avevano fatta vacillare.

Qual era il demone che possedeva le persone, si domandò. Perché il primo sentimento verso gli altri non era di apertura, di disponibilità, di condivisone per un evento felice, bensì di chiusura, di competizione, di desiderio di spogliare il fortunato per appropriarsi di ciò che era suo, materialmente o moralmente? Per quale ragione, soprattutto le donne, si avventavano sulle altre per strappar loro ogni scampolo di felicità, senza riuscire invece a gioirne insieme? La signora Derrick, sola e maestosa nello splendore del suo cuore generoso, le si era avvicinata per sorriderle a cingerla in un breve ma caloroso abbraccio; unico fiore in un deserto sterile.

L’amicizia che lei e Rose avevano condiviso era stata rara e preziosa, nonostante i rispettivi limiti e il ritegno di fondo che aveva impedito a entrambe di confidarsi tutto. Fortunatamente non c’erano state meschinità tra loro e anche il suo amore per Wulfric non l’aveva indotta a detestare l’amica né a compiacersi della sua malattia o peggio ancora della sua morte.
Tuttavia, nel profondo, sapeva  che solo la dipartita di Rose aveva provocato la serie di eventi che erano culminati con quell’attesa spasmodica e spaventata dell’uomo che amava, ieri una stella del firmamento, ora un re lontano ma accessibile, fatto di carne e sangue.
Un re che si ritrovò inaspettatamente accanto. Immersa nei suoi pensieri al punto di esserne sommersa, non aveva udito la porta aprirsi, né i suoi passi avvicinarsi. Il cuore diede un soprassalto e tutto il corpo le si risvegliò all’istante, formicolando dalla testa ai piedi.
Elizabeth si sollevò sui gomiti e girò il volto nella sua direzione. Lo sentiva respirare di un respiro grave e regolare, lontano da quello irregolare e ansioso dell’uomo affamato di lussuria. L’entusiasmo le venne meno, un germoglio stroncato sul nascere da qualche pianta nociva e quindi più pervicace. Bene, già non la desiderava più…
Si sedette sul letto senza chiederle il permesso. Sospirò, poi si schiarì surrettiziamente la gola. Brutto, brutto presagio…
―Elizabeth ho bisogno di parlarvi e vorrei che mi ascoltaste senza interrompermi.
Ecco, stava per calare la mannaia sul suo collo.
Meno male che non potevano vedersi bene, altrimenti l’espressione del viso avrebbe tradito il suo disappunto.
Per un attimo contemplò l’idea di prenderlo a calci e strappargli i suoi bei capelli pettinatissimi uno ad uno, perché solo un uomo intenzionato a dare una grande delusione esordiva in tale maniera. Come aveva osato illuderla anche per un solo istante e quindi ricacciarla nell’oblio? Che crudeltà era mai questa?
Wulfric fece scivolare la propria mano sotto la sua, una presa salda, né troppo debole né troppo forte, equilibrata come lo era lui. ─ Mi rendo conto che questa non è l’occasione più adatta per parlarvene, però ho ritenuto di informarvi il prima possibile.
Ah! Allora dopotutto non era sul punto di abbandonarla… Però a che si stava riferendo?
─ Al nostro ritorno c’era della corrispondenza ad attendermi e una missiva recava notizie che vi riguardano. E’ mia abitudine fare dei controlli sul personale che assumo, particolarmente su quello con cui ho contatti giornalieri o quasi. Su di voi all’inizio non trovai nulla, ma ho un investigatore particolarmente capace che è riuscito a ricostruire molta della vostra storia.

Elizabeth si irrigidì e tentò di spostare la mano.
Lui non glielo permise.
Continuò il suo monologo, alzando leggermente il tono che aveva tenuto fino a quel momento poco più alto di un sussurro.
─  Se lo desiderate potremo approfondire l’argomento più avanti, c’è molto da dire a da chiarire, sappiate solo che non era e non è mia intenzione mancarvi di rispetto o ferirvi. Non conosco tutto quello che avete passato e come siete sopravvissuta Elizabeth, tuttavia so il vostro vero nome e le vicende che vi hanno spinta a fuggire dalla Francia per riparare qui.
Wulfric avanzò sul copriletto e le si appressò maggiormente. ─ So che vi era rimasta una sola persona di tutta la vostra famiglia. Forse speravate di rivederla un giorno… io… ─ Si interrupe, in cerca delle parole adeguate, incapace di trovarle, frustrato e risentito perché per certe perdite, per certi dolori, non esistevano termini nemmeno lontanamente adeguati ad esprimerli. ─  Con grande rammarico debbo annunciarvi la morte di vostra zia Nadine, lei… non c’è più, mi spiace. Domani se volete, vi fornirò i dettagli.

Silenzio, buio, torpore.

Elizabeth non fiatò, non si mosse, quasi non respirò. Tutto era nero, tutto era vuoto e pieno al tempo stesso.
C’era il nulla, l’assenza.
Elizabeth tornò a fissare il soffitto.

Poi le crepe sul muro si infittirono, si rincorsero e si aprirono, riversandole addosso una pioggia di calce viva che la bruciò la pelle fino alle ossa.
Un attimo prima non c’erano suoni e quello dopo miriadi di campanelli le esplosero nelle orecchie, urlando come poiane attorno ad un cadavere.

Bewcastle era impazzito, di che andava cianciando? Che ne sapeva lui di zia Nadine e della sua famiglia? Niente di niente! Stava inventando tutto, non era possibile! Si sbagliava di certo, si sbagliava maledizione, si sbagliava! Dio non poteva essere così crudele, no, le aveva strappato via tutti e tutti, che bisogna aveva di prendersi anche zia Nadine? Lei era così solare, così vivace, così allegra… Wulfric si sbagliava.

Elizabeth ricadde sul letto e si cacciò una mano in bocca per non gridare. Non voleva crederci, non poteva crederci. Eppure, da qualche parte dentro di lei, sapeva con assoluta certezza che era vero. Nadine se ne era andata e lei ora era completamente sola. Le sue radici, la sua storia, la sua identità andate, volate via assieme allo spirito indomito e fiero della zia. Iniziò a singhiozzare silenziosamente, per una donna che non vedeva da dodici anni, per i suoi fratelli scomparsi, per l’Elizabeth che moriva insieme all’ultima della sua famiglia, per quell’affetto che le mancava e le era necessario più del pane, più dell’aria.
─ Volete che me ne vada Elizabeth?
La voce di Wulfric penetrò la coltre del dolore che la stava martoriando, lontana eppure forte e chiara. Quella avrebbe dovuto essere la notte in cui sarebbe finalmente diventata sua, in cui gli avrebbe regalato tutto l’amore e la passione repressi da anni. Invece  si ritrovava a piangere disperata, in una casa estranea piena di sconosciuti maldisposti nei suoi confronti, di fronte a un uomo che voleva sedurre più di ogni cosa al mondo. Non, non era così che avrebbe dovuto andare.

─ Dipende da voi Wulfric ─ ripose quasi borbottando. ─  Se le mie lacrime e la mia persona vi disgustano andate pure, non vi biasimerò, la situazione è imbarazzante e inappropriata. Ma mi piacerebbe che rimaneste… io non me la sento di stare da sola, almeno per un poco. E’ troppo e tutto insieme, io…
Wulfric non aggiunse una sola inutile frase, si limitò a sdraiarsi accanto a lei, silente.

Elizabeth tentava di dominarsi, ma la sofferenza esigeva uno sfogo, zampillando a fiotti dal suo corpo come acqua sorgiva. Se anche Wulfric la detestava o la disprezzava per la sua debolezza e la sua mancanza di decoro non le importava affatto: lei era questa, non si sarebbe più celata o camuffata. Prendere o lasciare.

E lui la prese. Così, d’un tratto. La fece girare su un fianco e le si strinse addosso da dietro. La abbracciò stretta stretta, senza sensualità ma colmo di  un calore  che si confondeva con una parvenza di affetto. La strinse mentre piangeva, mentre si fermava e poi ricominciava. La strinse quando si assopiva brevemente, spossata, per poi risvegliarsi oppressa dal peso del patimento. La strinse per ore e non la lasciò andare. Nemmeno quando alle prime luci dell’alba entrambi si abbandonarono esausti al sonno che li reclamava.

Prima si sprofondare tra le braccia di Morfeo, Elizabeth si innamorò nuovamente di Wulfric. Ciò che stavano condividendo era più intimo di qualsiasi atto carnale, lei si era mostrata nuda e lui non l’aveva respinta. Lei aveva teso una mano chiedendo aiuto e lui non era fuggito. Era restato con lei, confortandola come poteva, contro ogni convenzione sociale e morale. Era lì per lei come nessuno lo era più stato da tanto, tanto tempo.
Elizabeth lo amava e lui si era mostrato degno del suo amore, tutto il resto non contava.

 

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