Accesso utente

Nuovi utenti

  • Tata Zia
  • manuela76
  • liliana
  • guarda donatella
  • Vittoria

Twitter

Seguiteci anche su Twitter!

Paper Blog

Wikio

Wikio - Top dei blog - Letteratura

Banner

 

 

Home | Be My Valentine: un'iniziativa Leggereditore

Rispondi al commento

Be My Valentine: un'iniziativa Leggereditore

UN INCREDIBILE SAN VALENTINO
FIRMATO  LEGGEREDITORE

 

Finalmente arriva in Italia Il gioco della seduzione di Susan Elizabeth Phillips.
Un'autrice da 5 milioni di copie vendute in tutto il mondo!
Una storia d'amore che scioglierà anche i cuori più restii a lasciarsi andare.
Perché in fondo siamo tutte delle inguaribili romantiche...

In occasione di questa uscita la Leggereditore darà la possibilità ad una fortunata vincitrice di trascorrere un romantico weekend per due persone in una città italiana a propria scelta!

Ma non è finita! tra tutte coloro che commenteranno il post dedicato all'iniziativa BE MY VALENTINE, verranno sorteggiate 10 fortunate che riceveranno a casa una copia del libro!

Per partecipare cliccate sul banner!

 

SUSAN ELIZABETH PHILLIPS
Il gioco della seduzione

Per la prima volta in Italia, una delle voci più esilaranti, fresche e sensuali del panorama internazionale. Prova Susan Elizabeth Phillips, non potrai più farne a meno.

Quando gli opposti, non solo si attraggono, ma divengono inseparabili...
 
Cosa ci fa una donna che stravede per le scarpe, le borse di alta moda e le acconciature all'ultimo grido, al vertice di una delle aziende più prestigiose della città?
Chicago non è pronta per l’affascinante e capricciosa Phoebe Somerville, tuttavia quando il padre le consegna le redini della squadra di rugby della famiglia, tutti, lei compresa, dovranno farsene una ragione. Lei è un vero tornado, ma è possibile che una semplice donna riesca a creare un tale scompiglio in città?
Nessuno pensa che Phoebe riuscirà a risollevare le sorti della squadra, né tantomeno a far capitolare Dan Calebow, il fascinoso allenatore.  Ma si sa che spesso la prima impressione è quella meno affidabile...
Lavorando fianco a fianco, i due comprenderanno che  il gioco della seduzione è l'unico per cui vale la pena rischiare tutto, anche a costo di imbattersi in guai molto più seri di quanto abbiano previsto. E che forse è giunto il momento di far cadere quel velo di imperturbabile perfezione dietro il quale entrambi si nascondono.

“Semplicemente sensazionale. Ogni suo romanzo è un successo.”
The New York Times
 
“Un’autrice che spicca nel genere femminile.”
Publishers Weekly

La serie Chicago Stars è così composta:

1-IL GIOCO DELLA SEDUZIONE (It Had to Be You)
2-Heaven Texas
3-Nobody’s Baby But Mine
4-Dream a Little Dream
5-This Heart of Mine
6-Match Me If You Can
7-Natural Born Charmer

 

LEGGI UN ESTRATTO

 

1
Phoebe Somerville scandalizzò tutti presentandosi con un barboncino francese e il suo amante ungherese al funerale del padre. Sedeva davanti al luogo della sepoltura come una famosa attrice degli anni Cinquanta, con il barboncino bianco appollaiato in grembo e un paio di occhiali da sole ricoperti di strass a proteggere gli occhi. I presenti stentavano a stabilire chi fosse più fuori luogo: se il barboncino perfettamente tosato che sfoggiava un paio di fiocchi di raso color pesca su ciascun orecchio, quell’ungherese straordinariamente bello con la sua lunga coda di capelli ornata di perline, oppure la stessa Phoebe.
Lei aveva i capelli biondo cenere con splendide mèches platino, acconciati in modo che le ricadessero su un occhio proprio come Marilyn Monroe in Quando la moglie è in vacanza.
Le labbra, piene e umide, tinte di un delizioso rosa peonia, erano leggermente socchiuse mentre fissava la lucida bara nera dentro cui c’era ciò che restava di Bert Somerville.
Phoebe indossava un completo avorio con una giacchettina di seta, ma quello scandaloso bustino dorato e lucido sotto la giacca era più adatto a un concerto rock che a un funerale. E la gonna stretta, con alla vita una catena di anelli dorati, uno  dei quali ostentava una foglia di fico pendente, aveva uno spacco laterale che arrivava a metà di quella sua coscia ben modellata.
Era la prima volta che Phoebe tornava a Chicago da quando era scappata a diciotto anni, quindi solo pochi tra i presenti avevano conosciuto la prodiga figlia di Bert Somerville.
In ogni caso, dopo le storie che avevano sentito, nessuno di loro era rimasto sorpreso del fatto che Bert l’avesse diseredata.
Quale padre avrebbe voluto lasciare la sua proprietà a una figlia che era stata l’amante di un uomo quarant’anni più grande di lei, sebbene si trattasse del celebre pittore spagnolo, Arturo Flores? E poi c’era l’imbarazzo per quei dipinti.
Per uno come Bert Somerville non erano altro che disegni osceni, e il fatto che dozzine dei nudi astratti di Phoebe dipinti da Flores decorassero le pareti dei musei in tutto il mondo non gli aveva fatto cambiare idea.
Phoebe aveva la vita sottile, le gambe snelle e ben modellate, ma i suoi seni e i suoi fianchi erano abbondanti e femminili, un ritorno a un’epoca quasi dimenticata in cui le donne dovevano apparire tali. Aveva un corpo da cattiva ragazza, il genere di fisico che, anche a trentatré anni, avrebbe tranquillamente potuto fare bella mostra di sé appeso a un chiodo sulla parete di un museo. Era un corpo da bambola in cui era racchiuso anche un cervello intelligentissimo, ma ciò non aveva importanza poiché Phoebe era il genere di donna che
solitamente veniva giudicata solo dalle apparenze.
Anche il suo viso non era affatto convenzionale. I suoi lineamenti avevano qualcosa di strano, sebbene fosse difficile individuarlo con esattezza, dal momento che il suo naso era dritto, la bocca carnosa e la mascella forte. Forse era quel piccolo neo scuro scandalosamente sexy sopra lo zigomo. O forse i suoi occhi. Chi era riuscito a vederli prima che Phoebe indossasse gli occhiali da sole aveva notato quanto gli angoli fossero
inclinati verso l’alto, forse troppo esotici rispetto al resto del viso. Arturo Flores aveva spesso esagerato la forma di quegli occhi color ambra, a volte raffigurandoli più larghi dei suoi fianchi, altre sovrapponendoli ai suoi splendidi seni.
Durante il funerale, Phoebe era apparsa fredda e composta, nonostante quell’aria di luglio fosse molto umida. Neppure le rapide acque del vicino fiume DuPage, che scorreva attraverso diversi sobborghi a ovest di  Chicago, riuscivano a dare sollievo da quel caldo. Un gazebo verde scuro copriva sia la fossa sia le file di sedie allestite per le persone più importanti in un semicerchio intorno alla bara di ebano, ma non era abbastanza grande per accogliere tutti i presenti.
Quindi gran parte di quella folla ben vestita era in piedi sotto il sole e iniziava a sentirsi spossata, non solo a causa dell’umidità ma anche per il travolgente profumo di quasi un centinaio di addobbi floreali. Fortunatamente la cerimonia era stata breve e, poiché dopo non ci sarebbe stato nessun rinfresco, presto sarebbero potuti andare al loro bar preferito per riposarsi e gioire segretamente del fatto che questa volta era toccato a Bert Somerville e non a loro.
La lucida bara nera era posata per terra su un tappeto verde, proprio davanti al posto in cui sedeva Phoebe,   tra la sua sorellastra di quindici anni, Molly, e suo cugino Reed Chandler. Sul coperchio immacolato c’era una ghirlanda di rose bianche a forma di stella ornata di nastri celesti e oro, i colori dei Chicago Stars, la squadra della National Football League che Bert aveva comprato dieci anni prima.
Conclusa la cerimonia, Phoebe strinse tra le braccia il barboncino bianco e si alzò in piedi, finendo proprio sotto un raggio di luce che fece scintillare i dorati fili metallici del bustino e infiammò la montatura piena di strass dei suoi luccicanti occhiali da sole. L’effetto fu inutilmente teatrale per una donna che già lo era abbastanza.
Reed Chandler, il nipote trentacinquenne di Bert, si alzò dalla sedia accanto a lei e avanzò per posare un fiore sulla bara. La sorellastra di Phoebe, Molly, fece lo stesso subito dopo, un po’ impacciata. Reed dava tutta l’impressione di essere straziato dal dolore, sebbene tutti sapessero che avrebbe ereditato la squadra di football di suo zio. Phoebe posò diligentemente il suo fiore sulla bara del padre e impedì a quella vecchia amarezza di riemergere. Ache cosa serviva? Non era stata in grado di conquistarsi l’amore di suo padre quando era in vita e adesso finalmente poteva smettere di provarci. Allungò le mani per confortare la sua giovane sorellastra, che per lei era completamente un’estranea, ma Molly si scansò, come faceva sempre
quando Phoebe cercava di avvicinarsi a lei.
Reed tornò al suo fianco e Phoebe istintivamente si ritrasse.
Nonostante tutte le organizzazioni di beneficenza di cui faceva parte, lei non riusciva a dimenticare quanto suo cugine fosse stato prepotente da bambino. Distolse rapidamente lo sguardo da lui e, con voce bassa e leggermente roca, fin troppo perfetta per il suo corpo da sballo, si rivolse alle persone intorno a lei.
«Siete stati molto carini a venire. Specialmente con questo caldo terribile. Viktor, tesoro, potresti prendere Pooh?»
Quindi porse il piccolo barboncino bianco a Viktor Szabo, il quale stava facendo impazzire le donne non solo grazie a quel suo aspetto esotico, ma anche perché quel bel pezzo d’ungherese aveva un che di familiare. Qualcuna di loro riuscì giustamente a identificarlo con il modello che, con i capelli sciolti, i muscoli tesi e unti e la cerniera aperta, aveva posato per una campagna pubblicitaria nazionale per dei jeans
da uomo.
Viktor prese la cagnetta. «Certo, tesoro» rispose con un accento che, sebbene fosse riconoscibile, era meno pronunciato di quello di ciascuna delle sorelle Gabor, che avevano vissuto negli Stati Uniti diverse decine d’anni più di lui.
«Il mio cucciolotto» sussurrò Phoebe, non rivolta a Pooh, ma a Viktor.
Tra sé e sé, lui pensò che Phoebe stesse esagerando un po’ troppo, ma era ungherese e incline al pessimismo, quindi soffiò un bacio nella sua direzione e le rivolse uno sguardo appassionato mentre si sistemava la cagnetta tra le braccia e trovava la posa migliore per mettere in mostra quel suo corpo perfettamente scolpito. Di tanto in tanto muoveva la testa, in modo che la luce riflettesse il luccichio delle perline argentate discretamente intessute nella teatrale coda di capelli che gli arrivava quasi fino in fondo alla schiena.
Phoebe allungò una mano, le dita sottili e delle piccole mezzelune bianche sulla punta delle unghie rosa peonia, verso il corpulento senatore americano che si era avvicinato a lei.
Poi lo guardò come se fosse un gran bell’uomo particolarmente appetibile. «Senatore, grazie tante di essere venuto. So quanto lei deve essere occupato, è stato davvero un tesoro.»
La moglie del senatore, grassoccia e con i capelli grigi, rivolse a Phoebe un’occhiata sospetta, ma quando lei si voltò per salutarla, la donna rimase sorpresa da quanto caldo e amichevole fosse il suo sorriso. In seguito, avrebbe notato che Phoebe Somerville sembrava più a suo agio con le donne che con gli uomini. Era strano, considerando che era una simile bomba sexy. Ma d’altro canto quella era una strana famiglia.
Bert Somerville aveva l’abitudine di sposare le showgirl di Las Vegas. La prima di loro, la madre di Phoebe, era morta anni prima mentre cercava di dare alla luce il figlio maschio che Bert desiderava tanto. La sua terza moglie, la madre di Molly, aveva perso la vita in un incidente aereo tredici anni prima mentre era diretta ad Aspen, doveva aveva intenzione di festeggiare il suo divorzio. Solo la seconda moglie di
Bert era ancora in vita e non si sarebbe presa la briga di attraversare la strada per partecipare al suo funerale, figuriamoci prendere un volo da Reno.
Tully Archer, venerabile coordinatore della difesa dei Chicago Stars, si allontanò da Reed per avvicinarsi a Phoebe.
Con i suoi capelli bianchi, le sopracciglia brizzolate e il nasovenato di rosso, sembrava un Babbo Natale senza barba.
«Una cosa terribile, Miss Somerville. Davvero terribile.» Si schiarì la gola con un ritmico huc-huc. «Credo che lei e io non ci siamo mai conosciuti. È strano non aver mai incontrato la figlia di Bert, visto che suo padre e io eravamo vecchi amici.
Mi mancherà. Non che andassimo sempre d’accordo su tutto.
Bert poteva essere maledettamente ostinato. Ma, in ogni caso, lo conoscevo da una vita.»
Continuò a stringerle la mano e a farneticare, senza mai guardarla negli occhi. Chiunque non seguisse il football poteva chiedersi come fosse possibile che uno che sembrava sull’orlo della vecchiaia allenasse una squadra professionista, ma quelli che l’avevano visto lavorare non commettevano mai l’errore di sottovalutare le sue capacità di allenatore.
Ad ogni modo, amava parlare e quando non sembrò affatto intenzionato a smettere fu Phoebe a  interromperlo. «E lei è tanto caro a dire così, Mr Archer. Davvero uno zuccherino.»
Tully Archer era stato definito in molti modi nel corso della sua vita, ma mai uno zuccherino, e ciò lo lasciò momentaneamente senza parole, il che poteva essere proprio lo scopo di Phoebe visto che subito si voltò per ritrovarsi davanti un reggimento di energumeni allineati per porgerle le proprie condoglianze.
Con le scarpe grandi come delle navi cargo, spostavano nervosamente il peso da un piede all’altro. Migliaia di chili di carne su quegli zoccoli, cosce grosse come arieti, colli larghi e mostruosi ancorati a spalle massicce. Avevano le mani chiuse a mo’di rampini davanti a loro, come se si aspettassero che l’inno nazionale potesse iniziare da un momento all’altro, i loro spaventosi corpi enormi infilati nei maglioncini celesti della squadra e in calzoni grigi. Perle di sudore causato dal caldo di mezzogiorno luccicavano sulla loro pelle, che andava da uno scintillante blu-nero a un bianco abbronzato. Come gli schiavi delle piantagioni, i Chicago Stars della National Football League erano andati a rendere omaggio all’uomo
che li possedeva.
Un uomo senza collo e con gli occhi a fessura, che sembrava il genere di persona in grado di guidare una sommossa in un carcere di massima sicurezza, si alzò in piedi. I suoi occhi erano inchiodati sul viso di Phoebe, tanto che era palese il fatto che si stesse sforzando di non far scivolare lo sguardo su quei seni spettacolari. «Sono Elvis Crenshaw, nose guard.
Sono molto dispiaciuto per Mr Somerville.»
Phoebe accettò le sue condoglianze. Il nose guard si allontanò, lanciando un’occhiata incuriosita a Viktor Szabo mentre andava via.
Viktor, che era appena a qualche metro da Phoebe, aveva assunto la sua posa da Rambo, impresa non facile considerando che aveva tra le braccia un piccolo barboncino bianco invece di un Uzi. In ogni caso, era certo che quella posa funzionasse perché quasi ogni donna tra la folla lo stava guardando.
Adesso, se solo fosse riuscito ad attirare l’attenzione di quella creatura sensuale con quelle splendide natiche, la sua giornata sarebbe stata perfetta.
Sfortunatamente, la creatura sexy con un meraviglioso didietro si era fermata davanti a Phoebe e aveva occhi solo per lei.
«Miss Somerville, sono Dan Calebow, il coach degli Stars.»
«Be’, sal... ve, Mr Calebow» cantilenò Phoebe con una voce che a Viktor sembrò uno strano incrocio tra Bette Midler e Bette Davis, ma in fondo lui era ungherese quindi che cosa poteva saperne?
Phoebe era la migliore amica che Viktor avesse al mondo e lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, devozione che le stava dimostrando proprio in quel momento avendo acconsentito a fingersi il suo amante in quella macabra farsa. In quel momento, in ogni caso, non voleva far altro che allontanarla da qualsiasi cosa potesse ferirla. Sembrava che Phoebe non si rendesse conto che stava scherzando con il fuoco giocherellando con quell’uomo impulsivo. O forse sì. Quando Phoebe si sentiva con le spalle al muro, era in grado di tirar fuori un intero esercito di armi di difesa, e di rado qualcuna di esse veniva scelta saggiamente.
Dan Calebow non aveva rivolto a Viktor neppure un’occhiata, quindi non fu difficile per l’ungherese classificarlo come uno di quegli esasperanti uomini di vedute chiusissime riguardo a un modo di vivere diverso. Era un peccato, ma Viktor accettò quell’atteggiamento con il suo caratteristico buon carattere.
Forse Phoebe non aveva riconosciuto Dan Calebow, ma Viktor seguiva il football americano e sapeva che era stato uno dei quarterback più volubili e controversi della National Football League, finché non si era ritirato cinque anni prima e aveva iniziato ad allenare. L’autunno scorso, a metà stagione, Bert aveva licenziato l’allenatore degli Stars e al suo posto aveva ingaggiato Dan, che stava lavorando per la squadra
rivale, i Chicago Bears.
Calebow era una celebrità grande e bionda, con l’atteggiamento autorevole di chi non ha alcuna tolleranza per la mancanza di fiducia in sé stessi. Un po’più alto del metro e ottanta di Viktor, era più muscoloso della maggior parte dei quarterback professionisti. Aveva una fronte alta e larga, e un naso imponente con un piccolo bozzo sul setto nasale. Il suo labbro inferiore era leggermente più pieno di quello superiore e aveva
una sottile cicatrice bianca tra bocca e mento. Ma la sua caratteristica più affascinante non era né quella bocca interessante né i suoi folti capelli fulvi o la cicatrice tanto maschile sul mento. Piuttosto erano un paio di rapaci occhi verde mare che, in quel momento, stavano scrutando la povera Phoebe con una tale intensità che Viktor quasi si aspettava che la sua pelle incominciasse a fumare.
«Sono molto dispiaciuto per Bert» disse Calebow, la sua infanzia in Alabama che ancora trapelava dal suo accento.
«Ci mancherà.»
«È molto gentile a dire così, Mr Calebow.»
Una cadenza leggermente esotica era stata aggiunta ai toni bassi e rochi della parlata di Phoebe, e Viktor si rese conto che aveva aggiunto Kathleen Turner al suo repertorio di sensuali voci femminili. In genere non cambiava parlata così di frequente, quindi capì che era scossa. Di certo Phoebe non avrebbe lasciato che qualcuno lo notasse. Aveva una reputazione di bomba sexy da difendere.
L’attenzione di Viktor tornò di nuovo sull’allenatore degli Stars.
Si ricordò di aver letto che Dan Calebow era stato soprannominato Ice ai tempi in cui giocava, a causa della gelida mancanza di compassione per il proprio avversario. Non poteva biasimare il fatto che Phoebe fosse agitata in sua presenza.
Quell’uomo era davvero temibile.
«Bert amava davvero questo gioco,» proseguì Calebow «ed era un brav’uomo per cui lavorare.»
«Sono certa che fosse così.» Ogni lunga sillaba che lei pronunciava era una promessa senza fiato di dissolutezza sessuale, una promessa che, come Viktor sapeva benissimo, Phoebe non aveva alcuna intenzione di mantenere.
Si rese conto di quanto fosse nervosa quando Phoebe si voltò e allungò le braccia verso di lui. Immaginando correttamente che volesse Pooh come diversivo, Viktor fece un passo in avanti, ma proprio mentre lei stava prendendo quell’animale un camioncino della manutenzione emise un forte rumore che allarmò la barboncina.
Pooh fece un guaito e balzò dalle sue braccia. La cagnetta era rimasta in braccio troppo a lungo e iniziò una corsa sfrenata in mezzo alla folla, abbaiando insistentemente, con la coda che ondeggiava così selvaggiamente che il pompon sembrava potesse volar via in qualsiasi momento e sibilare in aria come il cappello di Oddjob.
«Pooh» gridò Phoebe, correndole dietro mentre la cagnetta bianca urtava le sottili gambe di metallo che sostenevano una torreggiante decorazione di gladioli.
Phoebe non era una creatura particolarmente atletica neppure nelle migliori circostanze. Intralciata da quella gonna stretta, non riuscì a raggiungere il cane in tempo per prevenire il disastro. I fiori traballarono e si rovesciarono all’indietro, urtando la ghirlanda infilata accanto a loro che, a sua volta, mandò all’aria un enorme mazzo di dalie. Gli addobbi erano così ammassati uno sull’altro che ciascuno di essi cadendo
ne faceva rovesciare un altro, e fiori e acqua iniziarono a volare in aria. I partecipanti al funerale che erano lì vicino balzarono via nel tentativo di proteggere i propri vestiti e inciamparono in altri addobbi. Come un domino, ogni cesta urtò contro un’altra, finché il pavimento non assunse l’aspetto del peggior incubo di Merlin Olsen.
Phoebe si tolse gli occhiali da sole, rivelando quei suoi occhi color ambra esoticamente inclinati all’insù. «Ferma, Pooh! Ferma, dannazione! Viktor!»
Viktor era già corso dall’altra parte della bara nel tentativo di fermare quella scatenata barboncina, ma nella fretta era inciampato in diverse sedie che, a loro volta, erano volate su un altro gruppo di decorazioni floreali, innestando un’altra reazione a catena.
Una signora mondana di Gold Coast, che si credeva un’esperta di cani di piccola taglia poiché possedeva uno shiatsu, fece un salto verso quella cagnetta frenetica e indietreggiò subito dopo quando Pooh abbassò la coda, scoprì i denti e cercò di morderla come fosse un Terminator canino. Sebbene Pooh fosse solitamente il più mansueto dei cani, la signora aveva la sfortuna di indossare Eternity di Calvin Klein, una fragranza che Pooh detestava da quando una delle amiche di Phoebe, che ne era impregnata, l’aveva definita un
bastardino e le aveva dato un calcio sotto il tavolo.
Phoebe, la cui gonna con lo spacco laterale lasciava vedere decisamente troppa coscia, si lanciò tra due difensori che la osservavano palesemente divertiti mentre gesticolava rivolta al barboncino. «Pooh! Qui, Pooh!»
Molly Somerville, mortificata dallo spettacolo che la sorellastra stava dando, cercò di nascondersi tra la folla.
Mentre Phoebe schivava una sedia, la pesante foglia di fico dorata che pendeva dagli anelli della sua cintura rimbalzò contro quella parte del corpo che le foglie di fico avrebbero dovuto celare. Cercò di afferrarla prima che la ferisse irreparabilmente, con l’unico risultato che la suola scivolosa dei suoi décolleté colpì un mazzo di gigli freschi. I piedi scivolarono sotto il suo peso e, con il fruscio di un sospiro, cadde.
Quando vide che la padrona scivolava per terra sul sedere, Pooh si dimenticò della minacciosa donna profumata. Interpretando per errore i gesti di Phoebe come un invito a giocare, la cagnetta si mise ad abbaiare forte per l’entusiasmo.
Phoebe cercò senza successo di tirarsi in piedi, concedendo sia al sindaco di Chicago sia a diversi membri della squadra rivale, i Bears, una generosa visuale delle sue cosce. Pooh schizzò tra le gambe di un borioso cronista sportivo e corse sotto le sedie proprio mentre Viktor le andava incontro dall’altra parte. La cagnetta amava giocare con Viktor e abbaiò con maggiore fervore.
Pooh fece una finta veloce ma si fermò, ritrovandosi intrappolata tra dei vasi di fiori rovesciati e il prato fradicio, una barriera davvero efficace per un animale che odiava bagnarsi le zampe. Con le spalle al muro, saltò su una delle sedie pieghevoli.
Quando quella iniziò a barcollare, fece un guaito infastidito e saltò su un’altra sedia e da lì su una superfice liscia e dura.
La folla trasalì nel vedere le rose bianche e i fiocchi celesti e oro volare via. Tutti rimasero in silenzio.
Phoebe, che era appena riuscita a rialzarsi, rimase pietrificata.
Viktor imprecò piano in ungherese.
Pooh, sempre molto sensibile nei confronti degli umani ai quali voleva bene, inclinò la testa di lato come se stesse cercando di capire perché la stavano guardando tutti. Intuendo di aver fatto qualcosa di molto sbagliato, iniziò a tremare.
Phoebe trattenne il respiro. Era meglio che Pooh non si innervosisse. Ripensò all’ultima volta che era successo e fece un rapido passo avanti. «No, Pooh!»
Ma il suo avvertimento arrivò troppo tardi. La cagnolina tremante si stava già accovacciando. Con un’espressione contrita sul suo piccolo muso peloso, si mise a fare pipì sul coperchio della bara di Bert Somerville.
La villa di Bert Somerville era stata costruita negli anni Cinquanta su quattro ettari di terreno a Hinsdale, un ricco sobborgo di Chicago situato nel cuore della Contea di DuPage.
Agli inizi del XX secolo quella era una zona rurale, ma col passare dei decenni era cresciuta fino a diventare un’enorme area residenziale per i dirigenti che ogni giorno salivano a bordo dei treni per raggiungere il centro e per gli ingegneri che lavoravano nelle industrie ad alta tecnologia lungo la superstrada East West Tollway. Gradualmente, il muro di mattoni che delimitava la proprietà era stato circondato da ombreggiate strade residenziali.
Da bambina Phoebe aveva trascorso poco tempo in quella sontuosa villa Tudor che sorgeva tra querce, aceri e noci dei sobborghi occidentali. Bert le faceva frequentare un collegio privato nel Connecticut fino all’estate, quando la spediva in un esclusivo campo per ragazze. Durante i suoi rari soggiorni a casa, Phoebe aveva trovato quella villa buia e opprimente e, quando due ore dopo il funerale salì la curva di scale che conduceva al secondo piano, stabilì che non era accaduto nulla che potesse farle cambiare idea.
Lo sguardo di condanna di un elefante catturato illegalmente durante uno dei safari in Africa di Bert la fissava dalla ruvida carta da parati bordeaux in cima alle scale. Incurvò le spalle scoraggiata. Il suo completo avorio era macchiato d’erba e il nylon velato che le avvolgeva le gambe era sporco e smagliato. I suoi capelli biondi erano arruffati, il rossetto rosa peonia sbavato.
Inevitabilmente le tornò in mente la faccia dell’allenatore degli Stars. Era stato lui a togliere Pooh dalla bara prendendola per la collottola. Quegli occhi verdi erano freddi e pieni di rimprovero quando le aveva riconsegnato il cane. Phoebe sospirò. Quel pasticcio al funerale di suo padre era un altro  disastro in una vita che già ne era piena. Voleva che tutti sapessero che a lei non importava del fatto che il padre l’avesse  diseredata, ma come al solito aveva esagerato e tutto le si era ritorto contro.
Si fermò per un attimo in cima alle scale e si chiese se la sua vita avrebbe potuto essere diversa se sua madre non fosse morta. Non pensava più molto a quella mamma showgirl di cui non poteva ricordarsi, ma nella solitudine dei suoi giorni da bambina aveva tessuto elaborate fantasie su di lei, cercando di immaginare una donna tenera e bellissima che le avrebbe dato tutto l’amore che il padre le aveva negato.
Si chiese se Bert avesse mai amato qualcuno. Sopportava poco le donne in generale, e tantomeno una ragazzina grassa e goffa che, tanto per cominciare, non aveva molta stima di sé stessa. Aquanto ricordava, le aveva sempre detto che lei era inutile, e adesso Phoebe sospettava che avesse ragione.
Atrentatré anni, non aveva un lavoro ed era rimasta quasi al verde. Arturo era morto sette anni prima. Phoebe aveva trascorso i primi due anni dopo la sua morte amministrando le mostre itineranti dei suoi dipinti ma, quando la collezione era entrata a far parte dell’esposizione permanente del Musée d’Orsay a Parigi, lei si era trasferita a Manhattan. I soldi che Arturo le aveva lasciato si erano gradualmente esauriti per aiutare a pagare le cure mediche dei suoi tanti amici morti di AIDS. Phoebe non ne rimpiangeva nemmeno un centesimo.
Per anni aveva lavorato in una piccola ma esclusiva galleria nel West Side specializzata in avanguardie. Proprio la settimana prima, l’anziana proprietaria aveva chiuso le porte per l’ultima volta, lasciandola senza un lavoro a cercare una nuova direzione per la sua vita.
Per un attimo pensò di essere ormai stanca di dare scandalo, ma si sentiva troppo fragile per affrontare una simile introspezione, quindi andò alla camera da letto di sua sorella e bussò alla porta. «Molly, sono Phoebe. Posso entrare?»
Non ci fu risposta.
«Molly, posso entrare?»
Trascorsero degli altri secondi prima che Phoebe sentisse un flebile e imbronciato: «Immagino di sì.»
Si fece coraggio mentre ruotava il pomello ed entrò in quella camera che da bambina era stata sua. Durante le poche settimane che ogni anno aveva trascorso lì, quella stanza era stata piena di libri, avanzi di cibo e cassette della sua musica preferita. Adesso era immacolata come la ragazza che la occupava.
Molly Somerville, la sorellastra quindicenne che Phoebe conosceva appena, era seduta su una sedia accanto alla finestra e indossava ancora l’informe vestito marrone che aveva al funerale. Diversamente da Phoebe, che da bambina era in sovrappeso, Molly era secca come un chiodo e i folti capelli marroni che le arrivavano alla mascella avevano proprio bisogno di una bella spuntata. Inoltre era bruttina, con una pelle pallida e spenta che sembrava non aver mai visto il sole, i lineamenti minuti e insignificanti.
«Come va, Molly?»
«Bene» disse, senza neppure alzare gli occhi dal libro aperto che aveva in grembo.
Phoebe sospirò. Non era un segreto che Molly la detestasse, ma avevano avuto così pochi contatti nel corso degli anni che Phoebe non sapeva dire con certezza il perché. Quando era tornata negli Stati Uniti dopo la morte di Arturo, era andata diverse volte nel Connecticut a trovare Molly a scuola, ma quella ragazzina era stata così poco comunicativa che lei alla fine aveva rinunciato. In ogni caso aveva continuato a spedirle dei regali per il compleanno e per Natale, e di tanto in tanto alcune lettere alle quali non aveva mai ricevuto
risposta. Era ironico il fatto che Bert l’avesse diseredata di tutto tranne che di ciò che avrebbe dovuto essere la sua responsabilità più importante.
«Hai bisogno di niente? Magari qualcosa da mangiare?»
Molly scosse la testa e tra loro calò il silenzio.
«So che è stata dura. Mi dispiace davvero molto.»
La ragazzina scrollò le spalle.
«Molly, dobbiamo parlare, e sarebbe più facile per entrambe se tu mi guardassi.»
Sua sorella sollevò la testa dal libro e guardò Phoebe con occhi vacui e pazienti, dandole la strana sensazione che fosse lei la bambina e Molly l’adulta. Avrebbe voluto non aver smesso di fumare, perché aveva il disperato bisogno di una sigaretta.
«Sai che adesso sono il tuo tutore legale.»
«Mr Hibbard me l’ha spiegato.»
«Credo che dovremmo parlare del tuo futuro.»
«Non c’è niente di cui parlare.»
Phoebe spinse un biondo riccio ribelle dietro all’orecchio.
«Molly, non devi tornare al campo estivo se non ne hai voglia. Sarei felice se venissi con me a New York domani e restassi fino alla fine dell’estate. Ho subaffittato un appartamento da un amico che adesso è in Europa. È in una posizione perfetta.»
«Voglio tornare al campo.»
Dal pallore di Molly, Phoebe non credeva che amasse quel posto più di quanto non avesse fatto lei. «Puoi farlo se davvero lo desideri, ma conosco bene la sensazione di non avere una casa. Ricordati che Bert ha mandato anche me a scuola a Crayton e che mi spediva al campo per le vacanze. Lo detestavo.
New York è divertente d’estate. Potremmo spassarcela e avere un po’di tempo per conoscerci meglio.»
«Voglio andare al campo» ripeté ostinatamente Molly.
«Ne sei assolutamente sicura?»
«Ne sono sicura. Non hai alcun diritto di impedirmi di andarci.»
Nonostante l’ostilità della ragazzina e il mal di testa che iniziava ad avvertire all’altezza delle tempie, Phoebe era riluttante a lasciar cadere la questione tanto facilmente.
Decise di tentare una nuova tattica e fece un cenno al libro sul grembo di Molly. «Che cosa stai leggendo?»
«Dostoevskij. In autunno farò uno studio indipendente su di lui.»
«Davvero notevole. Aquindici anni, è una lettura piuttosto pesante.»
«Non per me. Sono molto intelligente.»
Phoebe avrebbe voluto sorridere, ma Molly aveva detto quella frase in modo così prosaico che non poté farlo. «Giusto.
Vai bene a scuola, non è così?»
«Ho un quoziente d’intelligenza eccezionalmente alto.»
«Essere più intelligenti degli altri può essere una maledizione quanto un vantaggio.» Phoebe si ricordava il trauma di quando andava a scuola ed era più intelligente di molti suoi compagni. Era un’altra delle cose che l’avevano fatta sentire diversa.
Molly non mutò mai espressione. «Sono decisamente grata della mia intelligenza. La maggior parte delle mie compagne di classe sono stupide.»
Nonostante Molly si stesse comportando come una piccola presuntuosa detestabile, Phoebe cercò di non giudicarla.
Sapeva bene che le figlie di Bert Somerville dovevano trovare il proprio modo per affrontare la vita. Da adolescente, Phoebe aveva celato le proprie insicurezze dietro il grasso. In seguito, era diventata stravagante. Molly si stava nascondendo dietro il suo cervello.
«Se puoi scusarmi, Phoebe, sono arrivata a un punto particolarmente interessante e vorrei ricominciare a leggere.»
Ignorò il modo palese in cui quella ragazzina la stava liquidando e fece un altro tentativo per convincerla ad andare a Manhattan. Ma Molly rifiutò di cambiare idea e lei alla fine ammise la propria sconfitta.
Mentre stava per lasciare la stanza, si fermò sulla porta.
«Chiamami se hai bisogno di qualcosa, d’accordo?»
Molly annuì, ma Phoebe non le credette. Quella ragazzina avrebbe inghiottito veleno per topi prima di andare a chiedere aiuto alla sua riprovevole sorella maggiore.
Phoebe cercò di scrollarsi di dosso la propria depressione mentre andava al piano di sotto. Sentì che Viktor era al telefono con il suo agente in salotto. Aveva bisogno di stare un attimo da sola per ricomporsi, quindi andò nello studio di suo padre, dove Pooh dormiva su una delle poltrone davanti a un mobiletto per le pistole. La bianca testolina pelosa della barboncina si sollevò. Poi la cagnetta saltò giù dalla sedia facendo oscillare il pompon della coda e attraversò di corsa il tappeto verso la padrona.
Phoebe si mise in ginocchio e la strinse a sé. «Ehi, guastafeste, l’hai fatta grossa oggi. Non è vero?»
Pooh le diede una leccatina per scusarsi. Phoebe cercò di stringere i fiocchetti che si erano allentati intorno alle orecchie della cagnetta, ma le tremavano le dita e lasciò perdere. Pooh avrebbe trovato comunque il modo per allentarli di nuovo.
Quella cagnetta era una vergogna per la dignità della sua razza. Odiava i fiocchi e i collari di strass, si rifiutava di dormire sul suo lettino per cani e non era affatto schizzinosa nei confronti del cibo. Detestava essere tosata, spazzolata e lavata, e non voleva indossare il maglioncino con il monogramma che Viktor le aveva regalato. Non era neppure un buon cane da guardia. Quando l’anno prima Phoebe era stata aggredita in
pieno giorno nell’Upper West Side, Pooh si era strofinata per tutto il tempo contro le gambe del rapinatore implorando una carezza.
Phoebe affondò i capelli su quel morbido chignon bianco.
«Sotto quel bel pedigree, non sei altro che un bastardino.
Non è vero, Pooh?»
D’un tratto, Phoebe perse quella lotta che aveva combattuto per tutto il giorno e fece un singhiozzo soffocato. Un bastardino. Ecco che cos’era. Tutta in tiro come un barboncino francese.
Viktor la trovò in biblioteca. Con più tatto di quanto ne dimostrasse di solito, ignorò il fatto che avesse pianto.
«Phoebe, cucciolotta,» disse gentilmente «l’avvocato di tuo padre è qui per vederti.»
«Non voglio vedere nessuno» disse lei, tirando su con il naso mentre cercava invano un fazzoletto.
Viktor ne tirò fuori uno color prugna dalla tasca della giacca di seta grigia, e glielo porse. «Dovrai parlarci, prima o poi.»
«L’ho già fatto. Mi ha chiamato per discutere dell’affidamento di Molly il giorno dopo che Bert è morto.»
«Forse questa volta riguarda la proprietà di tuo padre.»
«Quello non mi riguarda.» Si soffiò rumorosamente il naso nel fazzoletto. Aveva sempre finto che non le importasse affatto di essere stata diseredata, ma una prova così chiara e pubblica del disprezzo di suo padre la feriva.
«È piuttosto insistente.» Viktor prese la borsetta che Phoebe aveva lasciato sulla poltrona e l’aprì. Era una pochette di Judith Lieber quasi perfetta, l’aveva trovata lui in un negozio dell’usato nell’East Village. Viktor le rivolse un’occhiata di disapprovazione quando notò una barretta di cioccolato nascosta sul fondo. La spostò di lato, poi estrasse il pettine e le sistemò i capelli. Fatto quello, tirò fuori fard e rossetto.
Mentre Phoebe si sistemava il trucco, lui si fermò un istante ad ammirarla.
Viktor trovava quegli strani lineamenti che avevano ispirato alcune delle migliori opere di Arturo Flores molto più attraenti dei visi dalle labbra turgide delle modelle anoressiche con cui lui posava. Era così anche per altri, come la fotografa Asha Belchoir che recentemente aveva fatto con lei una sessione fotografica.
«Togliti quei collant laceri. Sembri una del coro di Les Misérables.»
Mentre Phoebe allungava le mani sotto la gonna per togliersi le calze, Viktor ripose i trucchi nella borsetta. Poi le raddrizzò la cintura con la foglia di fico e l’accompagnò alla porta.
«Viktor, non voglio incontrare nessuno.»
«Non ti arrenderai proprio adesso.»
I suoi occhi color ambra furono presi dal panico. «Non posso fingere ancora a lungo.»
«Allora perché non smetti di provarci?» Le sfiorò la guancia con il pollice. «Forse le persone non sono così malignamente felici come credi.»
«Non riesco a sopportare l’idea che qualcuno possa essere dispiaciuto per me.»
«Preferiresti che tutti ti disprezzassero?»
Lei si sforzò di sorridere presuntuosamente mentre allungava la mano verso il pomello. «Non ho niente contro il disprezzo. Ciò che non sopporto è la pietà.»
Viktor guardò quegli abiti tanto inadatti a quelle circostanze e scosse la testa. «Povera Phoebe. Quando la smetterai di reinventarti?»
«Quando troverò quella giusta» disse lei piano.

 

Rispondi

CAPTCHA
Questa domanda serve a verificare che il form non venga inviato da procedure automatizzate
Image CAPTCHA
Inserisci i caratteri che vedi qui sopra

Calendario

Amazon

 

 

Giveaway

Partecipate al giveaway di Mariangela Camocardi, avete tempo per lasciare un commento fino al 9 novembre, quindi registratevi al sito se ancora non lo avete fatto e buona fortuna!

 

Eventi

        

Un'iniziativa di Kijiji

Commenti recenti

Fanfiction

Dream heroes

Alcuni eroi da sogno...