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Indiani e Cowboy (I parte)

La bellezza di un romanzo, oltre alla trama e alla scrittura, è riuscire a catapultare il lettore nei luoghi e nelle atmosfere che vengono descritte nel libro, fargli sentire rumori e sapori, farne respirare gli odori e i profumi. Mi è capitato spesso leggendo qualche bel libro di sentire sulla mia pelle i brividi di freddo come se fossi in una stanza di un castello medievale oppure sentire il suono di un valzer nei saloni sfarzosi di duchi e conti. Leggendo tanti bei romance abbiamo imparato anche usi e costumi di anni così lontani da noi come tempo e mentalità; abbiamo conosciuto il loro modo di pensare e di agire, i loro passatempi, le loro regole.

Oggi vorrei che lasciaste per qualche momento il Vecchio Continente, i castelli e i palazzi , e facciate con me un viaggio nel selvaggio West.

 

 

 

 

 

 

Non ho letto molti libri che parlino di romance e Nativi Americani e non credo che ce ne siano tanti perché la maggior parte racconta la storia del West dalla parte del cowboy e non del pellerossa . Se la storia viene narrata completamente all’interno di una tribù e se la scrittrice ha avuto la possibilità e la volontà di documentarsi al meglio su usi e costumi di questo popolo, si riesce capire in parte la loro cultura, le loro cerimonie, il loro vivere quotidiano come succede per i romance ambientati in Europa. A volte invece il racconto segue un’altra strada e il popolo indiano fa solo da sottofondo alla trama e qui succede spesso che vengano descritte cose non del tutto corrispondenti alla reale situazione di quel periodo.

Per decenni, nello strutturare luoghi, temi e personaggi del genere western, l’industria cinematografica e editoriale ha mostrato di voler aderire a quanto affermato nella seconda metà del XIX secolo dal generale Philip Henry Sheridan : “ L’unico indiano buono e un indiano morto”.

Nei film come nei libri, il nativo americano costituiva il selvaggio che si opponeva con crudeltà e ferocia al civilizzatore bianco. Cos’è ( non chi è) l’indiano nell’immagine che troviamo sulla carta stampata o sulla pellicola di un film? Una creatura selvaggia, dedita allo stupro e al massacro, anima pagana e superstiziosa priva di qualunque scrupolo etico e lontana da qualsiasi nobiltà d’animo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Siamo molto, molto lontani da quello che era il vero popolo dei nativi americani, dalla loro cultura, dalle loro tradizioni , dalla loro profonda coscienza del vivere in armonia con la natura. Questo popolo che ha subito un vero e proprio sterminio , in nome di una civiltà a cui non bastava solo occupare e dominare, continua però a vivere e la sua storia è la storia di un popolo che aveva saputo cogliere il senso profondo della Natura.

E' la storia di un popolo il cui destino è stato quello di morire, ucciso da un altro popolo forte, che sottomette la natura, stermina gli animali, sfrutta il territorio fino a renderlo arido, prosciuga le riserve d'acqua, disbosca le foreste, schiaccia i suoi simili, conquista, colonizza, uccide. E' la storia di un popolo che si trovò debole e indifeso quando i primi bianchi sbarcarono sulla sua terra; debole perchè non sterminava i bisonti; debole perchè non sottometteva il territorio, non lo bruciava ma prendeva da esso il minimo indispensabile per la sopravvivenza; debole perchè non cercava la guerra ma la pace; debole perchè non vedeva nell'uomo bianco un nemico ma un fratello; debole perché la sua vita non era consumo ma poesia. Il popolo Indiano si sente parte della Terra, per lui l'intero creato vive, sia terra, acqua, sasso, pianta, animale o uomo. Non è il "signore del creato" autorizzato a sottomettere la natura e ad addomesticarla .Soltanto adesso che la natura violentata e sfruttata comincia a rivoltarsi contro di noi possiamo comprendere quanto le loro parole furono profetiche.

In uno degli ultimi romanzi che ho letto, il protagonista ritornava nella sua amata Inghilterra dopo aver vissuto come uno schiavo per lunghi anni in una tribù indiana e dopo aver subito torture indescrivibili. Non è del tutto corretto quanto descritto ne libro.

La guerra era per gli Indiani una cosa ben diversa da ciò che pensiamo e facciamo noi Occidentali. Non avevano un esercito organizzato , c'era un capo , ma aveva la funzione di essere, con l'esempio, una guida per tutti i guerrieri e infatti veniva scelto per la sua audacia e il suo coraggio. Un'altra cosa impensabile per gli Indiani era una guerra fatta di masse di soldati mandati al massacro e che durasse anni. Le guerre fra tribù, per quanto cruente, il più delle volte duravano poco tempo e avevano come scopo quello di mettere il nemico in condizione di inferiorità e di dimostrare il coraggio dei guerrieri. Non c'era lo sterminio dell'avversario, anzi l'uccisione del nemico in genere non era un'azione molto apprezzata. Non era considerato onorevole uccidere un nemico, l'importante era "il toccarlo" con un bastone o con le mani e nulla valeva di più, per provare il coraggio di un uomo nel corso di una battaglia, del conteggio dei "conps" dei colpi. Un'altra differenza tra l'indiano e l'uomo bianco riguarda la causa o le cause che potevano scatenare una guerra: quelle dei bianchi hanno sempre avuto una causa economica anche se la si travestiva con motivazioni religiose o etniche. Nel popolo indiano, il nomadismo poteva essere una delle cause scatenanti di una guerra, perché poteva succedere che nello stesso pezzo di territorio si trovassero tribù diverse. Ma poteva essere anche un torto subito, il desiderio di provare il proprio valore con atti di coraggio o la razzia di cavalli.

 Era prassi molto comune in parecchie tribù di adottare i prigionieri da parte delle famiglie che avevano perduto un loro congiunto in battaglia. In questo caso il nuovo membro, dopo un periodo di “rodaggio” in cui poteva essere vittima di scherzi e derisioni ma mai di torture, veniva integrato nella tribù con gli stessi diritti e doveri di tutti gli altri. E questo valeva anche per i prigionieri bianchi.  Gli Indiani non avevano la cultura dell’essere inferiore, della schiavitù, del sottomettere.

Una cosa che stupì i primi bianchi giunti dall'Europa, fu la mancanza di uno Stato simile a quello che c'era nel vecchio continente. Malgrado la vastità del territorio, le tante tribù, la zona estremamente ricca di risorse naturali, non esisteva un'organizzazione statale centrale che comandava sugli altri. Le popolazioni indiane vivevano la loro particolar "democrazia" alla base della quale c'era la famiglia, e quasi sempre la famiglia era quella della donna. Le tribù eleggevano un capo (a volte due: uno civile e uno per la guerra) scelto per il suo valore e il coraggio dimostrati in guerra. Ma il potere decisionale era in mano al Consiglio degli Anziani, eletto democraticamente da tutti gli adulti della comunità, che si riuniva per discutere sulle questioni più importanti, e ogni decisione doveva ottenere la piena unanimità.  Un capo doveva essere gentile, buono, generoso e altruista, ma contemporaneamente gli si richiedeva fermezza , autorità e autocontrollo. Era visto come un "padre" e in questa veste interveniva come un mediatore nei conflitti personali tra i membri della tribù. Le infrazioni alle leggi tribali erano piuttosto rare; questo perché la paura di perdere prestigio agli occhi della comunità e sopratutto l'emarginazione e la cacciata da essa, significava la morte, sia morale che fisica, per le enormi difficoltà che un individuo doveva affrontare per poter sopravvivere da solo.

L’importanza e il potere che la donna indiana aveva nella tribù era molto forte: in alcune tribù la sua posizione era così estesa che si può ipotizzare a una forma di matriarcato. Non avevano una collocazione per nulla inferiore a quella degli uomini anche se i compiti erano differenti, la loro posizione era assai più alta di quanto spesso si è asserito.

L’abitazione anche se costruita dagli uomini era di proprietà della donna. Quando una ragazza si sposava era l’uomo che si trasferiva nella famiglia della suocera. L’educazione delle bambine era affidata alla madre, mentre quella dei maschietti allo zio materno. La discendenza era matrilineare. Le donne partecipavano attivamente alla vita sociale e politica della tribù e in alcuni casi (come fra gli Irochesi) sceglievano i capi o li destituivano se non li reputavano degni dell’incarico. Potevano essere loro stesse essere elette come capi della tribù. Ad esse era affidato il compito di amministratrici, erano considerate "proprietarie" del tepee di cui ne avevano la cura, prendevano parte ai riti sacri insieme al marito. Non sono mai esistiti casi di segregazione sociale e di esclusione delle donne dalla vita cerimoniale.

Non mancavano poi donne che sceglievano una vita diversa e partecipavano attivamente non solo alla caccia, ma anche a tutte le attività maschili e questo veniva accettato perché la libertà e la scelta individuali (se non intaccavano l'integrità della tribù) erano assolutamente intoccabili. Avevano anche il diritto di voto, cosa che le loro sorelle bianche hanno ottenuto secoli dopo con lotte e battaglie. Nella maggioranza delle tribù, sotto l’aspetto sessuale la ragazza era libera, anzi il corteggiamento era favorito dalle famiglie. Ma una gravidanza poteva rivelarsi d’intralcio per un futuro matrimonio e così, fra le tante erbe usate come medicinali, le donne indiane si tramandavano di generazione in generazione quelle da usare come anticoncezionali. Era anche molto comune il “matrimonio di prova” : per qualche mese i due futuri sposi provavano a convivere e poi se andava tutto bene avveniva la cerimonia vera e propria. A entrambi i coniugi era riconosciuto il diritto di divorziare e il più delle volte i figli restavano con la madre.

Le donne indiane non erano molto prolifiche, l’allattamento al seno si prolungava per tre, quattro anni e in alcune tribù in questo periodo la donna evitava i rapporti sessuali poiché riteneva che ciò le avrebbe consentito di allattare più a lungo. Inoltre le cure e l’educazione impartite al bambino coinvolgevano molto entrambi i genitori che preferivano allungare i tempi fra una nascita e un’altra per avere più tempo da dedicare a ogni singolo figlio. Al momento del parto la donna, da sola o con un’altra donna, si isolava in una capanna o in una tenda. Appena nato al bambino veniva tagliato il cordone ombelicale che la maggior parte delle volte veniva conservato in un apposito contenitore, quindi veniva lavato e frizionato con erbe aromatiche. Da quel momento e fino a quando il piccolo non iniziava a camminare , madre e figlio diventavano una cosa unica, anche fisicamente grazie ad un sistema di “culla portatile” con la quale la madre portava il bambino con sé in costante contatto fisico.

La nascita di un bambino veniva accolta con immensa gioia. Un bimbo non apparteneva solo ai genitori ma a tutta la tribù e si poteva muovere in tutto l’accampamento in assoluta libertà e sicurezza. L’educazione era basata sull’esempio, applicato sempre con grande rispetto verso il piccolo essere umano che si aveva davanti: difficilmente si arrivava alle percosse o ai divieti. Lentamente, con pazienza, rispettando i tempi del bambino, lo si abituava alla sua vita da adulto. Un osservatore bianco ammesso a un importante riunione dei capi anziano Hopi raccontava stupito che nella stanza scorrazzavano bambini e che uno dei capi che stava parlando si interruppe per prendere sulle ginocchia un piccolo in lacrime e che riprese il discorso solo dopo averlo consolato e rimesso a terra...

 

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